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Su Santo Elia Profeta

Festa, 20 luglio

   Al tempo dell'esilio babilonese (586-538 a.C.) un ignoto Autore decise di mettere per iscritto certi antichi racconti sul profeta Elia, perché servissero come insegnamento e conforto agli esiliati.

  Elia fu sacerdote e profeta, nato a Galaad, ad est del Giordano, nel Regno del Nord d'Israele, e visse nel secolo IX a.C., al tempo di Re Acab (874-853 a.C.). La moglie del re, Gezabele, era una principessa fenicia, figlia del Re di Tiro. Acab l'aveva sposata per sancire una alleanza con i potenti signori del mare, quali erano allora i re fenici nella regione costiera dell'attuale Libano. Fare alleanza con loro, voleva anche dire mescolare i culti e le usanze religiose tra i due popoli. Gezabele poi aveva una personalità testarda e irriducibile: non solo voleva continuare a onorare i suoi dei, ma pretendeva imporli anche ai suoi nuovi sudditi israeliti. A questo scopo aveva fatto erigere un tempio in onore dei suoi di Baal e Astarte, proprio a Samaria, la capitale d'Israele.

La vigna di Nabot

 

   In quell'epoca ciascun israelita considerava il suo fazzoletto di terra come patrimonio inalienabile. Era la terra "promessa da Dio", era "terra santa"! C'era dunque un certo Nabot che possedeva un vigneto nei pressi del palazzo reale, e quella terra faceva gola ad Acab che desiderava ingrandire la sua proprietà. Il sovrano tentò di acquistarla, ma Nabot era fermo nel rifiuto. Rispondeva ostinatamente: «Il Signore mi guardi dal cederti l'eredità dei miei padri!». E Acab conosceva bene l'implicazione, diciamo così "teologica", di quell'attaccamento, tanto più che proprio lui – il Re – era tenuto a proteggere i deboli in nome di Jahve! Ciò non gli impediva comunque di sentirsene irritato, in preda a un malumore che gli toglieva il sonno e l'appetito. Ma Gezabele era fenicia: apparteneva a un popolo di mercanti, estranea a tutte quelle tradizioni religiose. Decise perciò di usare, ai suoi scopi, proprio quella religione a cui Nabot si appellava. Non c'era scritto nella legge mosaica che il peccato di bestemmia era punito con la morte e con la confisca dei beni? Era così semplice! Gezabele guardava il marito con scherno: «E tu saresti colui che esercita il potere in Israele?! Alzati, mangia e sta allegro! Te la darò io la vigna di Nabot!» Non le fu difficile trovare un paio di falsi testimoni e di giudici compiacenti: il povero Nabot venne accusato di bestemmia ("contro Dio e il Re!") e lapidato. E la vigna divenne proprietà del Sovrano. Ma mentre Acab e Gezabele scendevano a prendere possesso del vigneto, trovarono a sbarrar loro la strada Elia, l' uomo di Dio:

  «Così parla il Signore – disse il profeta minaccioso – tu hai assassinato, e ora usurpi! Perciò nello stesso luogo dove i cani hanno leccato il sangue di Nabot, lambiranno anche il tuo sangue! (...). E proprio su questo campo i cani divoreranno il corpo di Gezabele!» (1Re 21, 19-20. 23).


Il culto dei Baal in Israele

 

   Alla divina condanna del suo operato, Acab si pentì e si umiliò; ma Gezabele si sentì invece divorare dall'odio e dal desiderio di vendetta, a cui costrinse anche il marito. «Nessuno si è mai venduto per fare il male, agli occhi del Signore, tanto quanto fece Acab, istigato dalla moglie Gezabele!». Ciò che la principessa fenicia faceva nel cuore del Re, istigandolo a trasgredire le sacre Leggi di Dio, pretendeva fare anche con l'intero popolo eletto: voleva sradicare dal loro cuore il primo e più grande comandamento della Legge che dice: «Io sono il Signore tuo Dio. Non avrai altri dei di fronte a me! Non ti farai idolo né immagine alcuna! Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, tutta la tua mente, tutte le tue forze!». Gezabele pretendeva imporre il culto di Baal e di Astarte, estirpando perfino il ricordo di Jahve, l'unico vero Dio di Israele.

    Il nome Baal significa "Signore", "Padrone", e anche "Marito", ed era così chiamato il Dio della tempesta, della pioggia, e dunque anche della fecondità. Si pensava che, attraverso la pioggia, il dio fecondasse la terra e le permettesse di generare; come attraverso il seme concedeva la fecondità del bestiame e della razza umana. In tal modo egli era il dio della vita, e il culto a lui dovuto si intrecciava con riti orgiastici, in cui aveva grande parte l' esaltazione carnale.

   Tali culti, col loro fascino  corposo, erano una continua tentazione per il piccolo popolo di Israele che - unico nella storia - aveva il difficile compito di accogliere e difendere la Rivelazione di un Dio tutto spirituale (di cui non ci si doveva fare immagine alcuna!), trascendente (che non si poteva piegare a sé, mescolandolo alle proprie soddisfazioni), esigente (che chiedeva soprattutto obbedienza e purezza di cuore), geloso (che non ammetteva altri amori e altri dei). Non è che il popolo ebraico avesse intenzione di rinnegare Jahve, ma cedeva volentieri a forme di sincretismo (mescolando assieme i vari culti e le varie credenze), soprattutto quando il Re si mostrava a ciò inclinato. È in questo ambiente, e per queste necessità, che Dio fece sorgere come suo profeta Elia, il cui nome significa appunto: «Dio (El) è Jahve (Jah)». Poiché dunque il popolo ormai chiedeva a Baal il dono della pioggia e della fecondità, Elia apparve impetuosamente sulla scena come colui che poteva chiudere i cieli con la sua sola parola:

   «Elia, il Tisbita, uno degli abitanti di Galaad, disse ad Acab: "Per la vita del Signore, Dio di Israele, alla cui presenza io sto, in questi anni non ci sarà più né rugiada né pioggia, se non quando lo dirò io!"». E la pioggia cessò di fecondare la terra. Di tale straordinaria siccità si ha notizia anche dagli storici extra biblici (Giuseppe Flavio, Menandro di Efeso). 

    È celebre la definizione che Elia ha dato di se stesso, presentandosi di schianto come uno che sta sempre alla presenza del suo Dio: «È vivo il Signore, dinanzi al cui Volto io sempre sto!» (1 Re 18, 1). La riflessione giudaica prima – e poi quella cristiana, e carmelitana in specie – hanno visto in questa fiera espressione del profeta il fondamento biblico di ogni "vita contemplativa": vita di uomini che sanno restare alla presenza del Dio vivente, quasi a rappresentare e riscattare l'intera umanità spesso dimentica del Suo Esserci e della Sua Gloria. A causa di questa caratteristica "auto-presentazione", Elia è stato riconosciuto – fin dalle origini del cristianesimo – come capostipite e modello ideale di coloro che si consacrano a Dio.


La fuga di Elia

 

   Perché fugga dalle ire della regina, Jahve gli rivolge questa parola: «Vattene da qui e dirigiti verso oriente. Nasconditi presso il torrente Karit. Berrai l'acqua del torrente, e i corvi per mio comando ti porteranno del cibo» (1 Re 17).

   Elia ha sfidato il Re e la Regina Gezabele, e si è assunto il peso terribile di annunciare al popolo una immane sofferenza che non è tanto punizione, quanto dimostrazione della falsità dei culti fenici. Il cielo resterà chiuso, la pioggia non verrà, la terra resterà infeconda, uomini e bestiame non trasmetteranno vita perché saranno essi stessi minacciati di morte. Diventerà così evidente agli occhi famelici di tutti che "l'uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio", tanto che la parola di Dio dimenticata (e che ora è solo sulla bocca del suo profeta) toglie anche il pane. Così diventerà evidente al popolo che esso adora un dio infecondo, un dio morto, un dio che non è nulla, ed è per questo che dilaga la carestia e la morte. Il profeta è solo: tutto il regno e tutto il popolo stanno per sollevarsi contro di lui, ed ecco che Dio lo chiama a Sé e lo avvolge nella sua intimità, lo disseta e lo nutre nella solitudine, a costo di un miracolo.

   Poi anche quel torrente prodigioso seccò, e il Signore sostituì il prodigio con la carità di una povera vedova, simile a quella che Gesù osserverà più tardi mentre getta nel tempio i suoi ultimi soldini, "tutto ciò che le restava per vivere". «Il Signore disse ad Elia: "Va' in Zarepta di Sidone, e stabilisciti là. Ecco, io ordinerò a una vedova del posto di procurarti il cibo"». Il profeta dovrà inoltrarsi proprio nella terra dei fenici - dove egli è non solo straniero, ma nemico - e cercare aiuto presso una povera donna che non ha più nulla: «Entrato nella porta della città, vide una vedova che raccoglieva della legna». Quando Elia le chiede da bere e da mangiare, la poveretta risponde che non ha più nulla: le è rimasto soltanto un pugno di farina nella giara e un pochino d'olio nell'orcio, e quella legna le serve per cuocere un'ultima focaccia per lei e per il suo ragazzo. «la mangeremo e poi moriremo». Elia, anche se bisognoso di accoglienza, porta con sé la paterna provvidenza di Dio: «Non temere, prepara una piccola focaccia per me e portamela, quindi ne preparerai anche per te e per tuo figlio, poiché dice il Signore: "la farina nella giara non si esaurirà, e l'orcio dell'olio non si svuoterà, finché il Signore non farà piovere sulla terra!"».

   Quella casa straniera, priva di ogni aiuto e di ogni protezione – accogliendo nelle sue mura l'inviato di Dio – diventa così ricca di pane e di vita. Tanto che quando il figlio della vedova si ammala e muore, Elia si prende il bambino in grembo e quasi lo riscalda con tutto se stesso, e il piccolo ritorna in vita. Sarà Gesù, molti secoli dopo, a ricordare questi episodi ai suoi compatrioti, agli abitanti di Nazareth che gli rifiutano ospitalità: «Nessun profeta è bene accetto in patria. C'erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese, ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Zarepta di Sidone» (Lc 4,24-25).


Il sacrificio sul Monte Carmelo

 

   «Dopo molto tempo, il Signore disse a Elia: "Su, mostrati ad Acab; io concederò la pioggia alla terra» (1 Re 18).

   Quando si incontrarono Elia disse al Re: «Su, raduna davanti a me tutto Israele sul Monte Carmelo, e raduna anche i quattrocentocinquanta profeti di Baal e i quattrocento profeti di Astarte che mangiano alla tavola di Gezabele!».

   Il Carmelo non è una cima isolata, ma piuttosto una lunga catena montuosa, stesa lungo la costa, posta a confine tra il Regno di Israele e il territorio dei Fenici. Oltre a essere un luogo sacro per antichissime tradizioni, era anche simbolo di bellezza e di fecondità, perché abitualmente ricco di vegetazione spontanea.

   Davanti al popolo radunato per un sacro giudizio, stavano Elia, il profeta perseguitato e solitario, e i numerosissimi protetti di Gezabele. Elia gridò verso il popolo: «Fino a quando zoppicherete da ambedue i piedi? Se Jahve è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, allora seguite lui!». Ma il popolo non rispose nulla. Il dramma era tutto in quel pauroso silenzio di un popolo che non aveva scelto, che non voleva scegliere, che pretendeva quasi camminare sulla cresta della montagna, in un impossibile equilibrio, zoppicando da un lato e dall'altro. Ma era ormai un popolo estenuato dalla sete e dalla fame. Ed Elia lanciò la sua sfida: là, sulla montagna sacra del Carmelo, egli avrebbe eretto un altare e vi avrebbe deposto sopra una vittima sacrificale; lo stesso avrebbero fatto i profeti di Baal secondo i loro costumi. Nessuno però avrebbe acceso il fuoco per l'olocausto: «Voi invocherete il nome del vostro dio e io invocherò quello del Signore. La divinità che risponderà concedendo il fuoco è Dio!».

   «Elia disse ai profeti di Baal: "Sceglietevi il giovenco da sacrificare e cominciate voi perché siete più numerosi. Invocate il nome del vostro Dio, ma senza appiccare il fuoco". Quelli presero il giovenco, lo prepararono e invocarono il nome di Baal dal mattino fino a mezzogiorno, gridando: "Baal, rispondici!". Ma non si sentiva un alito, né una risposta. Quelli continuavano a danzare intorno all'altare che avevano eretto. Essendo già mezzogiorno, Elia cominciò a beffarsi di loro dicendo: "Gridate con voce più alta, perché egli è un dio! Forse però è soprappensiero oppure indaffarato, o in viaggio; caso mai fosse addormentato, si sveglierà". Gridarono a voce più forte, e si fecero incisioni, secondo il loro costume, con spade e lance, fino a bagnarsi tutti di sangue. Passato mezzogiorno, quelli ancora agivano da invasati, ed era venuto il momento in cui si sogliono offrire i sacrifici, ma non si sentiva alcuna voce, né una risposta, né un segno di attenzione» (1 Re 18, 25-29).

   Quando fu chiaro che quegli idolatri avevano fallito la prova, Elia rialzò il vecchio altare di Jahvé che era stato demolito, pose su di esso la vittima sacrificale e poi fece inondare tutto di acqua, ripetutamente, per dare ancora più evidenza al miracolo che doveva compiersi.
   «Al momento dell'offerta, si avvicinò il profeta Elia e disse: "Signore, Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, oggi si sappia che tu sei Dio in Israele, e che io sono tuo servo, e che ho fatto tutte queste cose per tuo comando. Rispondimi, Signore, rispondimi, e questo popolo sappia che tu sei il Signore Dio e che converti il loro cuore!". Cadde il fuoco del Signore e consumò l'olocausto, la legna, le pietre, prosciugando l'acqua del canaletto. A tal vista, tutti si prostrarono a terra ed esclamarono: "Il Signore è Dio! Il Signore è Dio!"» (vv. 36-39).


L'intercessione del profeta Elia

 

   Quando il popolo riconobbe, con un solo grido, che Jahve era l'unico e vero Dio, il principio di ogni vita e di ogni fecondità, Elia pronunciò l'attesa promessa: i cieli si sarebbero aperti, e la pioggia avrebbe finalmente ristorato la terra.

   «Elia si recò sulla cima del Carmelo; e gettatosi a terra pose la faccia tra le proprie ginocchia. Quindi disse al ragazzo che lo accompagnava: "guarda verso il mare!". Quegli andò, guardò e disse: "Non c'è nulla!". Elia gli disse: "tornaci ancora!". E fu così per sette volte. La settima volta il ragazzo riferì: "Ecco, c'è una nuvoletta, piccola come una palma di mano d'uomo, che sale dal mare". Elia gli disse: "Va' a dire ad Acab: attacca i cavalli e scendi in fretta, affinché non ti sorprenda la pioggia!". Subito il cielo si oscurò per le nubi e per il vento, e la pioggia cadde a dirotto"»(1 Re 18, 42-46).

   Il profeta che ha chiuso i cieli con la sua parola ora diventa per tutti intercessore di misericordia. I cristiani vedranno nell' episodio della nube che sorge dal mare l'annuncio del Figlio di Dio che verrà a donarci se stesso, come acqua. San Cesario di spiegava ai suoi fedeli: «La piccola nube che saliva dal mare era una figura della carne di Cristo che doveva nascere sul mare di questo mondo». Ma furono i Carmelitani medievali che precisarono con maggior delicatezza una tale interpretazione, costruendo poi su questa riflessione la loro spiritualità e la loro "devozione" mariana: la piccola nuvola, pregna di pioggia e di grazia, simboleggiava Maria, la vergine immacolata, portatrice di Gesù: «Come la nube si levò leggera e dolce dalle amare acque del mare, così Maria sorse dalla nostra razza umana, ma libera da ogni peccato fin dalla sua origine» (Cfr. Institutio primo rum monachorum).


Dio si rivela al profeta

 

   «Acab raccontò a sua moglie Gezabele tutto ciò che Elia aveva fatto e come aveva ucciso tutti i profeti di Baal. Allora Gezabele mandò ad Elia un messaggero per dirgli: "Che gli dei mi puniscano, se entro domani a quest'ora io non ti avrò fatto fare la stessa fine che tu hai fatto fare ai mie profeti!". Elia ebbe paura e fuggì per salvarsi la vita».

   Elia fugge per improvvisa paura, ma Dio lo lascia cadere nella debolezza per rivelargli un altro e più profondo aspetto del suo Mistero. «Arrivò a Bersabea, lasciò il suo servitore, e proseguì nel deserto per un'altra giornata di cammino. Alla fine si sedette sotto un ginepro, e si augurò di morire: "Signore – disse - non ne posso più! Toglimi la vita, perché non valgo più dei miei padri!". Si coricò e si addormentò sotto quel ginepro». Bersabea era un'oasi posta ai confini meridionali del Regno, dove cominciava il deserto, un pozzo scavato da Abramo, e poi difeso dal figlio Isacco. Proprio lì Jahvé aveva rinnovato a costui la promessa già fatta al padre: «Io sono il Dio di Abramo tuo padre; non temere perché io sono con te...» (Gen 26, 15ss). Ma Elia vi giunge stanco e sfiduciato. Senza saperlo egli sta ripercorrendo le tappe di un ideale pellegrinaggio, e Dio sta tramutando la sua fuga in un ritorno alle sorgenti pure della fede ebraica:

  «All'improvviso un angelo lo svegliò e gli disse: "Alzati e mangia!". Subito notò accanto a sé una focaccia, di quelle cotte su pietre arroventate, e una brocca d'acqua. Dopo aver mangiato e bevuto, si mise di nuovo a dormire. Ma l'angelo del Signore lo svegliò una seconda volta e gli disse: "Mangia ancora, perché il tuo cammino sarà molto lungo!". Elia allora si alzò, mangiò e bevve. Poi, rafforzato da quel cibo, camminò quaranta giorni e quaranta notti, fino all' Horeb, il monte di Dio».

   Si intravvede nel racconto la ripresa simbolica dei quarant'anni durante i quali il popolo eletto vagò nel deserto, il ricordo della manna donatagli da Dio, e infine l'approdo al monte santo della Rivelazione: l'Horeb (o Sinai). Vi si scorge anche una anticipazione del mistero eucaristico: nelle prove della vita – soprattutto quando essa sembra tramutarsi in un deserto, e ci opprime un senso di fallimento o di paura – e nelle prove della fede – quando essa si fa vacillante – l'Eucarestia è il pane degli angeli che Dio ci ha dato, per rafforzarci e per sostenerci nel cammino, fino all'incontro con Lui. 

  Quando  finalmente il  profeta giunge al Sinai, accade  una delle  teofanie (manifestazioni di Dio) più sconvolgenti dell' Antico Testamento. Sconvolgente perché inattesa nelle modalità, e in grado di modificare la stessa maniera di immaginare e di attendere Dio.

   «Giunto sull' Horeb Elia entrò nella caverna per passarvi la notte. Gli fu detto: "Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore!"(...). Ed ecco che il Signore passò. Ci fu prima un vento impetuoso e violento, tanto da spaccare le montagne e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu il fuoco. Ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu come un mormorio di vento leggero. Appena l'udì Elia si coprì il volto col mantello, uscì e si fermò all'ingresso della caverna. E sentì una voce che gli diceva: "Che fai qui Elia?". Egli rispose: "Sono pieno di gelosia, per il Signore Dio degli eserciti, perché gli israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari e hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo, e tentano di togliermi la vita"». (1 Re 19, 9-14).

   Nella mistica carmelitana sarà celebrata – per secoli, fino ai nostri giorni – questa "passione gelosa per la gloria di Dio" (la frase "ardo di gelosia per il Signore Dio degli eserciti" è scritta sul cartiglio che avvolge lo stemma carmelitano), passione che finalmente raggiunge il cuore della creatura (e assieme il cuore stesso di Dio) nell' atto supremo della pura e amorosa contemplazione.


L'assunzione in cielo di Elia

 

   Per comando di Dio, la vicenda di Elia ormai va verso la conclusione nella scelta che egli deve operare di un successore, un discepolo che continui la sua opera. Ma è in questo passaggio di consegne che la Scrittura dà un ultimo e decisivo tocco alla storia di Elia, un tocco conclusivo che resterà determinante: Elia non muore, viene assunto in cielo, in una travolgente coreografia, mentre Eliseo, il discepolo, lo invoca - a nome di tutto il popolo - con un grido struggente: «Mentre camminavano e parlavano, un carro di fuoco con cavalli di fuoco passò in mezzo a loro. Elia fu rapito in cielo in un turbine di vento. Eliseo guardava e gridava: "Padre mio, Padre mio! Difesa e guida di Israele!"» (2 Re 2,11-13). Al di là della glorificazione poetica e popolare, il fatto che Elia "non muoia", significa che Egli mantiene nella storia del popolo eletto una funzione permanente: egli deve vivere perché è «designato a rimproverare i tempi futuri/ per placare l'ira prima che divampi/ per ricondurre il cuore dei padri verso i figli» (Sir 48, 10).

   Il profeta Elia è il personaggio dell'antica Alleanza più ricordato e più presente in quella Nuova: perfino più di Abramo, perfino più di Mosè: egli era atteso come precursore del Messia, e Gesù stesso scorgerà i suoi tratti spirituali nel volto di Giovanni Battista. E anche sul monte della Trasfigurazione, accanto a Cristo i discepoli videro appunto Mosè ed Elia, che «discutevano con Lui, della sua morte a Gerusalemme» (Lc 9, 30).

   Nella tradizione giudaica, è Elia - il profeta sempre vivente - che guida il popolo ebraico nelle strade tormentate della storia e lo sorregge e lo conforta: ogni volta che scende la sera del sabato, si attende il suo ritorno; un seggio vuoto è a lui destinato durante il rito della circoncisione e, durante la cena pasquale, c'è sempre una coppa di vino in più, pronta per il Profeta, se dovesse tornare. Anche i monaci cristiani - tutti, fin dalle esperienze eremitiche dei primi secoli - considerarono Elia come loro Padre e Fondatore; ed è per questo che il Monte Carmelo, sacro alla memoria del Profeta, divenne nel secolo XIII, un luogo dove si raccoglievano i pellegrini di Terra Santa che decidevano di consacrarsi a Dio. Per tutti, giudei e cristiani, l'attaccamento a Elia ebbe il segno della affezione filiale.

 

di P. Antonio M. Sicari ocd
da Riflessi di Dio - I Santi del Carmelo, EDIZIONI OCD, Roma 2009.

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